La folla

Se la licenzio devo darle il trattamento di fine rapporto e ora non ho i soldi. Ma come puoi vivere in un paese per dodici anni e non imparare due parole di italiano. Una volta che te ne vai, è per sempre. Non puoi pensare di tornare al paese, perché dopo così tanto tempo non è più il tuo. Straniero qui, straniero in patria. Devi decidere dove sarà la tua tomba e rinunciare a tornare. Al massimo le vacanze. Come si chiamava quell’ingegnere dell’IBM? Dopo aver girato e vissuto in giro per il mondo, una volta in pensione aveva deciso di tornare a Milano, ma non era più la sua città. Se i miei sapessero che non ho dato nemmeno un esame … . Non so cosa fare. Se glielo dico, cosa faranno? Cosa penseranno di me? Avevano così tanta fiducia. Dovrei già essere laureato. Finalmente libera, mi sono tolta di dosso quest’uomo di merda. Ma come ho fatto? Ora lo so, l’orologio biologico. Certo, era un bell’uomo …, è un bell’uomo, ma è impossibile viverci assieme. Totalmente inutile, una sofferenza. A parte scopare. Ora almeno ho un bambino. Cosa ci farà tutta questa gente a prendere la metro? Quello che faccio io, tornano a casa. Qualcuno invece scapperà da casa, qualcosa, qualcuno, oppure da tutto. Devo rientrare prima di mio figlio. Lavare bene le macchie, far sì che sia impossibile capire cosa è successo. Aveva urlato che voleva andarsene. L’avevano sentita tutti nel palazzo! Devo puntare su questo, stare attento a non tradirmi. Non volevo, ma mi dava addosso senza darmi un attimo di pace. Impossibile tornare indietro, ora. Speriamo di fare in tempo, non voglio che mio figlio sappia cosa ho fatto. Di chi saranno quelle vecchie scarpe? Ma tu guarda … . Probabilmente un poveraccio. Troppa gente sta male e non ce ne rendiamo conto fino a quando tocca a qualcuno che conosciamo. Oppure quando tocca a noi. Guardi che è inutile spingere, non vede quanta gente? Scusi. Scusi un bel niente. La piantasse almeno di appoggiarsi. Questo pare averlo bello gonfio; forse riesco a sfilarglielo senza farmi beccare come il mese scorso. E per due soldi, c’era più cartaccia che denaro. Sfigato. E sfigato io che mi sono fatto beccare, ma che ne sapevo che era un poliziotto in pensione. In genere li riconosco gli sbirri. Che fiatone. Non ce la faccio proprio più. Una volta le scale non erano un problema. Ora devo fermarmi molte volte prima di arrivare in cima. Chi avrebbe mai pensato di finire così. Da giovane non sai nulla di ciò che ti aspetta, tutto è possibile. Puoi immaginare in grande, sognarti su di un palco a ritirare un premio o in compagnia di una bellissima donna. Speriamo il treno non sia in ritardo. Non ho più voglia di aspettare, ho preso la maledetta decisione. È strano come ci si senta bene, dopo. Determinati per la prima volta. In pace. Prima o poi dovremo lasciarci. Quando la bimba sarà grande a sufficienza da capire, dovremo lasciarci. Ingoierò il rospo per i prossimi anni, ce la farò, per permetterle di crescere serenamente. Più o meno. Sopporterò. Avrei dovuto capirlo subito che non eravamo fatti l’uno per l’altra. Non riusciamo nemmeno a camminare insieme, figurati vivere. Eppure stava bene, non l’avevo mai vista così raggiante. Sono bastati tre mesi. Non tre anni, tre mesi! e il cancro se l’è portata via. Come è possibile? Asintomatico, ha detto l’oncologo. Vuol dire che quando te ne accorgi è troppo tardi. Non riesco a pensare ad altro. Non è giusto. Non è giusto. Non è giusto! Non avrei dovuto dargli un pugno. Mio padre me l’aveva detto: se qualcuno ti attacca, difenditi, ma non essere il primo, non risolvere mai una questione a pugni. Ora mi denuncerà, il bastardo. Credeva che io non reagissi, come al solito. Che gusto spaccargli i denti! Il suo sarcasmo di merda ora se lo può mettere su per il culo. E davanti al giudice dirò che l’ho fatto con piacere, soddisfazione, perché non è giusto comportarsi civilmente coi figli di puttana, bisogna gonfiarli di botte, altro che far finta di niente o porgere l’altra guancia. Avrei dovuto sorriderle anch’io. Era proprio bella. E quel sorriso non era per qualcun altro, c’ero solo io. E invece sono rimasto lì imbambolato a chiedermi perché avesse sorriso proprio a me. Scemo! Non era importante il perché, era importante che l’avesse fatto. Ha aspettato un po’, poi, quando io ho distolto lo sguardo, lo ha fatto anche lei e dopo un minuto se n’è andata. Sono proprio un imbecille. Devo essere stato adottato, non c’è altra spiegazione. Come posso essere così diverso da loro e da mio fratello. Altro che pecora nera, sono proprio un altro animale. Io non appartengo qui. Ma come fa quello a leggere un libro in questa calca.

Oh, finalmente un po’ di spazio.

© Paolo Nobile – Tutti i Diritti Riservati
Testo registrato su Patamu.com con numero di deposito 144296

© Alexey Titarenko – CROWD TRYING TO ENTER VASSILEOSTROVSKAYA METRO STATION DURING THE COLLAPSE OF THE SOVIET UNION, 1992 – Gelatin silver print. Printed by Alexey Titarenko from original silver negative by optical means.
La Folla (2020) – © Paolo Nobile, Tutti i Diritti Riservati
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Arrival (Colonna Sonora)

Arrival (2016) è un film che periodicamente rivedo scoprendo sempre un dettaglio in precedenza inosservato. O inascoltato. È la storia, tratta da un racconto di Ted Chiang, dell’arrivo sulla Terra di dodici oggetti alieni e del tentativo di una linguista, arruolata in fretta e furia dall’Esercito Americano, di stabilire un contatto con gli esseri che abitano l’astronave. Mentre impara con difficoltà il linguaggio utilizzato dagli alieni, la protagonista comincia ad avere esperienze di memorie future, ricordi di un tempo non ancora trascorso (se si intende il tempo in senso lineare e direzionale, come lo intendiamo comunemente). Questo accade perché, secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf utilizzata nel film nella sua interpretazione più estrema, «il modo di esprimersi determina il modo di pensare» e quindi di avere esperienza del mondo (Le lingue sono «modi di guardare il mondo» — Károly Kerényi). Gli ospiti giunti sulla Terra utilizzano un linguaggio che altera la percezione umana lineare del tempo, da qui le memorie della protagonista relative a eventi della sua vita non ancora avvenuti.

La colonna sonora gioca un ruolo importantissimo nella fascinazione che Arrival continua a esercitare su di me. On the Nature of Daylight di Max Richter stabilisce subito il tono del film (verrà riproposta alla fine, a chiudere il cerchio) e quasi fa passare in secondo piano lo stupendo lavoro di Jóhann Jóhannsson, l’autore della colonna sonora originale — peccato che a causa di On the Nature of Daylight, il lavoro dell’autore islandese non abbia potuto essere ammesso alla corsa agli Oscar … . 

Data l’importanza della comunicazione e del linguaggio nella narrazione della storia, Jóhannsson ha utilizzato voci e coro cercando di distanziarsi da esempi più illustri come questo.

Qui c’è un assaggio del suo approccio alla storia narrata in Arrival.

E in questo articolo, una bella intervista sul suo lavoro.
Se non avete ancora visto il film, guardatelo. Nel momento in cui scrivo è disponibile anche in streaming su Amazon Prime, compreso nell’abbonamento, o su YouTube a pagamento.

Erano i ’60

Suor Angela era una delle suore che imponeva il timore di dio nell’asilo del quartiere nel quale ero capitato. Secca-secca, occhialuta, menava sventole che pareva Serena Williams. Una di quelle, esplosa improvvisamente, colpiva a velocità supersonica la guancia e, con uno schiocco che pareva uno sparo, ti elevava il quoziente di intelligenza in un amen.
In quegli anni, quello era il metodo per tenere a bada le esuberanze di noi piccoli immigrati, meridionali e veneti in maggioranza, i cui genitori rubavano il lavoro agli indigeni. Secondo l’opinione degli indigeni.
Se, una volta a casa, il teppistello aveva il coraggio di riportare l’accaduto, rischiava di prendere una seconda razione. In genere le mamme – negli anni ’60 i papà non accudivano i figli – non si lamentavano. Ammesso che una di loro nutrisse dubbi sul metodo formativo di Suor Angela, dopo una breve riflessione arrivava alla conclusione che, probabilmente, il figlio si era meritata la sberla.

Se invece eri un bambino tranquillo, dio mai volesse timido e studioso, non venivi mandato a fare karate o pugilato in ambiente protetto, come una specie in via d’estinzione, ma ogni pomeriggio, dopo la scuola, venivi mandato in strada a giocare. Lì sviluppavi gli anticorpi e imparavi a fare a botte. Fino a dodici anni ho fatto a botte, se non tutti i giorni, quasi. I miei avevano il conto aperto dall’ottico sul corso — ho indossato gli occhiali sin dalla seconda elementare. Periodicamente, dopo l’ennesima rissa, mi presentavo da solo in negozio con in mano i pezzi delle mie baricole e la proprietaria, scuotendo la testa, diceva «Questi non posso proprio più aggiustarli». E via un altro paio. Cambiavo più spesso occhiali che spazzolino da denti.

Si giocava in strada, e capitava che si facessero danni. Una volta, con gli altri membri della banda, dopo aver fatto i compiti, organizzai una sassaiola contro la 500 del barbiere, reo di avermi tagliato i capelli troppo corti nonostante gli avessi detto di non ascoltare mia madre. Incredibilmente lui non seppe mai chi e perché, ma mio padre sì, non so come. Qualcuno doveva aver fatto la spia. Quella sera solo mia madre potè impedirgli di ammazzarmi.

I compagni di classe delle elementari erano tra i più eterogenei: da quello a cui oggi diagnosticherebbero come minimo una malattia dall’acronimo impossibile a quello divenuto famoso pochi anni dopo, non ancora maggiorenne, per rapina a mano armata. Di due anni più vecchio di noi, bocciato due volte alle elementari – un caso unico – una mattina d’inverno era stato colto in flagrante in una gioielleria del centro. All’arrivo della volante, aveva subito posato la pistola sul pavimento e si era arreso senza fare resistenza, evitando le aggravanti. «Un giovane esperto con conoscenza approfondita del Codice Penale» scrisse all’epoca il quotidiano nella sezione cittadina. Me lo ricordo ancora il mio ex-compagno di classe a diciassette anni, spatentato, allenarsi con la cosiddetta Alfetta Rapina — l’Alfa Romeo 1800 Alfetta (122 CV), mezzo in uso alla Polizia e preferito dai rapinatori — percorrere in pieno giorno a tutta velocità la doppia curva a esse sotto casa, sgommando e derapando in modo da infilare come un missile la via che portava sul corso e poi dritto all’autostrada per Savona. Proprio bravo, non ha mai investito nessuno.

Erano gli anni in cui durante la bella stagione si vedevano ancora i maggiolini e le lucciole (gli insetti), ma d’inverno la nebbia in città era così fitta che non ti fidavi ad attraversare la strada neppure se intuivi il verde del semaforo. La stagione era lunga e faceva così freddo che c’era spesso il ghiaccio sul marciapiedi. I campi di calcio per noi bambini non erano in erba sintetica, ma in fango vero, incastonato qua e là da alcune pietre, croci dei portieri. Non c’era l’allenatore certificato per la rianimazione cardio-polmonare e l’uso del defibrillatore come nelle squadrette di oggi. Chi si procurava una ferita, ci pisciava sopra per disinfettarla (c’era questa bizzarra credenza sulle proprietà della pipì). Eventuali dispute sul campo, non essendoci gruppi agguerriti di mamme a controllare, venivano risolte con le mani. 

© Pedro Luis Raota

Se ti innamoravi della maestra e le portavi un regalino, non venivi accusato di molestie. E una volta approdato alle medie, pochi anni dopo, non dovevi aspettare che la tua compagna di classe ti dicesse «Sì, ora puoi baciarmi» dopo che avevi firmato la dichiarazione di consenso informato in triplice copia e la manleva per gli eventuali effetti secondari. Se riuscivi a mettere insieme il coraggio necessario, la baciavi e basta. Perché te l’aveva fatto capire in tutti i modi che era ora.

Le vacanze duravano tre mesi e mezzo. Senza compiti. Si partiva in treno scortati da un’amica di famiglia o un parente che tornava ggiù e si tornava a casa poco prima di ricominciare la scuola. Trasformati. Ci pensavano i cugini a farti fare esperienze che oggi fanno solo i trentenni accompagnati.

Scalzo e sempre in costume, che fossi al mare o in città a casa della zia, il colore della pelle si trasformava in bronzo brunito tanto che quando i genitori mi raggiungevano, la prima espressione che si dipingeva sul loro viso quando entravo nella stanza era “Mio figlio dov’è?”.

Si era precoci nel vizio. Ho fumato la prima volta a nove anni, quarta elementare: Nazionali Senza Filtro Esportazione, quelle col pacchetto verde e la sagoma della caravella nera. Uno delle banda ne aveva rubate cinque al padre, se l’era messe in tasca e ce le aveva portate insieme a qualche fiammifero. Uno schifo! Smisi subito, ma ricominciai a fumare a diciassette anni. Questa volta la pipa. 

Ma questa è un’altra storia. Si era già nei ’70.

© Paolo Nobile – Testo registrato su Patamu.com con numero di deposito 142102

Memorie di Adriano

È il testo al quale torno periodicamente. Che ri-leggo, ma col piacere della prima volta. Che mi comunica un senso di compiutezza. Grandezza.

È il più bel libro che abbia mai letto. E lo è da molti anni.
Mi sono chiesto spesso perché e la ragione credo stia nel fatto che mi importa. In un famoso Ted Talk, Andrew Stanton afferma che probabilmente il primo comandamento da rispettare nel raccontare una storia è “Make me care, please. Emotionally, intellectually, aesthetically, just make me care”.
Memorie di Adriano soddisfa pienamente questo comandamento.

Stratificazione 9 (2013) – Tiratura limitata di 7 copie, 70 x 100 cm + PA
© Paolo Nobile – Tutti i Diritti Riservati

Nei Taccuini di appunti in appendice all’opera, Marguerite Yourcenar scrive che Memorie di Adriano fu concepito tra il 1924 e il 1929 (impiegherà circa trent’anni per completarlo). Uno degli spunti fu un’osservazione contenuta nella corrispondenza di Flaubert:

Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo.

Gustave Flaubert

Non ho letto l’opera in originale, il mio francese è troppo limitato, ma considero la traduzione di Lidia Storoni Mazzolani un capolavoro.
La traduzione è un lavoro difficilissimo. Rendere in un altra lingua le sfumature, il sottotesto, i doppi sensi, è un’impresa che ha del magico. In qualche raro caso la traduzione è allo stesso livello del capolavoro tradotto.
Fu l’autrice stessa a proporre la traduzione a Lidia Storoni Mazzolani la quale, in Una Traduzione e un’Amicizia in appendice all’opera, scrive:

voleva che il suo scritto sembrasse tradotto dal latino, e perciò preferiva una studiosa del mondo classico anziché di letteratura francese.

Scelta geniale.
Chi non avesse ancora letto Memorie di Adriano, dovrebbe rimediare al più presto.