Nobody Knows Anything

È l’affermazione, ripetuta più volte, fatta da William Goldman a pagina 39 del suo Adventures in the Screen Trade – A Personal View of Hollywood (*). E se lo scrive uno dei più celebrati sceneggiatori di Hollywood, ci sarà una ragione.

[…] the single most important fact , perhaps, of the entire movie industry:

NOBODY KNOWS ANYTHING.

[…] Not one person in the entire motion picture field knows for a certainty what’s going to work. Every time out it’s a guess.

William Goldman

In questo bel libro – e, in piccola parte, manuale – di oltre quattrocento pagine, l’autore ripercorre la sua carriera sin da quando neppure pensava di fare lo sceneggiatore, riesanima i successi e i suoi – secondo lui, molti – insuccessi. È anche una guida alla scrittura per film seppure oggi nelle scuole di cinema si dica: «così non si fa». È una visita nelle stanze chiuse degli studios o sui set dove operano i grandi nomi. È un libro attuale, nonostante sia passato molto tempo dalla sua pubblicazione, 1983, e nonostante gli sconvolgimenti operati dalle compagnie di streaming negli ultimi anni. L’autore è morto nel 2018.

Goldman parte con l’esaminare i gruppi di potere: le star, gli executives, i registi e i produttori. Svela alcuni retroscena, aspetti del business di cui gli spettatori difficilmente sono a conoscenza, alcuni lati nascosti delle star.
Esamina gli elementi che compongono il sistema hollywoodiano. Tra questi: Los Angeles, gli agenti, i molti meeting.

Nella seconda parte l’autore racconta delle sceneggiature commissionate, i successi e i fallimenti, aspetti di un ecosistema invisibile ai più: Harper, Butch Cassidy and the Sundance Kid, All the President’s Men, Marathon Man, The Right Stuff e molti altri. Alcuni attori erano già famosi (Paul Newman, Dustin Hoffman), altri erano – prima del film che li rese famosi – emeriti sconosciuti, come Robert Redford.

La terza parte è dedicata alla scrittura di un adattamento tratto da un racconto – Da Vinci – dimenticato dallo stesso autore e riscoperto casualmente dalla figlia. Goldman ne scrive la sceneggiatura. Scopriamo in che modo approccia il lavoro e cosa pensano del risultato i professionisti che lui approccia per intervistarli e chiedere loro un parere. Ultimo arriva George Roy Hill, regista di Butch Cassidy e di molti altri film, il quale strapazza il lavoro di Goldman evidenziandone tutti i punti deboli, senza pietà. Goldman riporta tutto e obietta alcune opinioni del regista. Un esempio piuttosto crudo di ciò che ti può capitare anche se ti chiami William Goldman.

Un libro molto godibile.

(*) Non sono riuscito a trovare l’edizione italiana.

Mr. Robot, ma non solo

Premessa 1: Mr. Robot è da guardare.
Premessa 2: Chi non mi conosce potrebbe pensare che io sia bacchettone oppure omofobico. Tranquilli.

Sono ormai all’ultima stagione di Mr. Robot. Nella puntata di ieri, ma non è stata l’unica di questa serie, intere sezioni erano interamente dedicate ai rapporti con lo stesso sesso o all’autoerotismo. Scene gratuite che nulla hanno aggiunto alla storia o alla definizione dei personaggi. Inutili, ridondanti.

Mr. Robot non è l’unico prodotto televisivo o cinematografico dove l’amore omo venga esposto a capocchia. Ormai da parecchio tempo.

Intendiamoci: se quelle scene fossero state etero, in quel contesto sarebbero state comunque superflue.

Il fatto è che non se ne può più di vedere storie, altrimenti belle, farcite malamente di rapporti sessuali – etero, omo, misti – per poter fare contenti gli spettatori, parte di essi o per assecondare la tendenza politica o sociale del momento. Se la storia richiede una scena di sesso saffo, un’ingroppata tra maschioni o una tradizionale mano maschio-femmina, facciamola, ma che sia organica alla storia.

Senza dimenticare che girare scene di sesso è molto, molto difficile.

Extremely Loud & Incredibly Close

Recentemente mi sono imbattuto in questo libro di Johnatan Safran Foer, uscito nel 2005.

Bello, commovente, profondo, inaspettato. Da leggere lentamente, più lentamente del solito. Probabilmente uno dei migliori libri che ho letto negli ultimi dieci anni.
Avevo visto il film su blue-ray anni fa, film diretto da Stephen Daldry con Tom Hanks, Sandra Bullock e Thomas Horn, ma lo ricordavo vagamente per cui mi sono immerso nel libro quasi come se venissi a contatto con questa storia per la prima volta.

A New York un ragazzino riceve dal padre un messaggio rassicurante sul cellulare: “C’è qualche problema qui nelle Torri Gemelle, ma è tutto sotto controllo”. È l’11 settembre 2001. Tra le cose del padre scomparso il ragazzo trova una busta col nome Black e una chiave: a questi due elementi si aggrappa per riallacciare il rapporto troncato e per compensare un vuoto affettivo che neppure la madre riesce a colmare. Inizia un viaggio nella città alla ricerca del misterioso signor Black: un itinerario ricco di incontri che lo porterà a dare finalmente risposta all’enigmatico ritrovamento e ai propri dubbi.

Mi è piaciuto subito, dalle prime frasi. Sarà uno di quelli che, molto probabilmente, rileggerò nel tempo. Ho visto che ha suscitato lodi e critiche allo stesso tempo, ma credo le critiche siano giunte da puristi della scrittura che considerano certe soluzioni, definite tipografiche, come artifici impuri, astuti, da non utilizzare nelle opere serie. Io credo che qualunque soluzione onesta e organica al racconto sia invece benvenuta se funzionale alla storia. Come in questo caso.

Il libro nella versione originale.

La versione italiana nella traduzione di Massimo Bocchiola. 

Il trailer del film.

Il film su Prime Video.

Due parole sul cinema italiano

Due parole non richieste.

Il termine pregiudizio (dal latino prae, “prima” e iudicium, “giudizio”) (in inglese bias) può assumere diversi significati, tutti in qualche modo collegati alla nozione di preconcetto o “giudizio prematuro”, ossia basato su argomenti pregressi e/o su una loro indiretta o generica conoscenza.

Wikipedia

Questa è la definizione migliore che ho trovato. Quella della Treccani fa riferimento alla mancanza di «una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose», ma nel caso del cinema ho, per quanto piccola, qualche diretta esperienza che mi permette di andare oltre al semplice mi piace/non mi piace.
Per quanto ci si sforzi, impossibile liberarsi dal pregiudizio. Non sono io a dirlo, ma filosofi del calibro, per esempio, di Raimon Panikkar o Hanna Arendt. Quindi affronterò l’argomento sapendo che adopererò certamente un pregiudizio nei confronti del cinema del nostro paese.

Ieri pomeriggio mi sono imbattuto in un film italiano che si ispira a un fatto realmente accaduto. Nessun titolo o riferimento preciso; ne parlerò in termini generici perché le caratteristiche del film sono comuni a troppi dei nostri prodotti. E non desidero allungare la lista di nemici.

Stavo facendo una ricerca su un fatto di cronaca della storia italiana, importante, ma ormai sconosciuto al cittadino comune, e ho voluto vedere come lo avevano trattato gli autori. Regista conosciuto, cast importante, personaggi principali e secondari tutti interpretati da attori noti; selezione ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia, progetto finanziato dalla Regione e co-finanziato dall’unione Europea, film riconosciuto di interesse culturale con contributo ecc..
«Chissà che questa volta io non riesca ad arrivare alla fine». Mi sono fermato al dodicesimo minuto. Di una storia appassionante che poteva essere affrontata da diversi punti di vista e che offriva, da sola, nuda, la struttura drammaturgica sulla quale innestare personaggi sperabilmente intriganti, ne è stata tratta una versione insignificante, stereotipata, spenta, mediocre nell’esecuzione. L’ho già scritto in altre occasioni: in un famoso Ted Talk, Andrew Stanton afferma che probabilmente il primo comandamento da rispettare nel raccontare una storia è

“Make me care, please. Emotionally, intellectually, aesthetically, just make me care”.

E se non sei riuscito a ottenere la mia attenzione a nessun livello nei primi dodici minuti, ma al contrario sei riuscito a irritarmi già dalle prime inquadrature … .

Il soggetto, forse quello con cui sono stati ottenuti i finanziamenti, era probabilmente interessante proprio per la storia vera che fornisce lo spunto, la base sulla quale lavorare, ma l’esecuzione, nella forma di sceneggiatura e messa in scena, è così primitiva da assomigliare al risultato di un saggio di fine corso.
Gli attori, nonostante i nomi, davano la sensazione di aver dimenticato la differenza tra personaggio e caratterizzazione; non erano nella parte, risultavano fasulli. A parziale discolpa degli attori i dialoghi stereotipati, privi di sottotesto, ridondanti, quindi inutili al procedere della storia, non hanno certamente aiutato, anche se un maggiore rispetto dei tempi avrebbe reso il testo più scoppiettante e meno inorganico alla scena. La regia è generalmente elementare: totale, campo, contro-campo. Se c’è un movimento di macchina, è artificioso o addirittura casuale, spesso non necessario. La fotografia, dal punto di vista della sola luce, si salva, ma non sembra essere organica alla storia.
Non è l’unico film, purtroppo, ad avere queste caratteristiche. E troppe serie Tv hanno gli stessi problemi.

Perché? Provo a capire.

È un problema di soldi? Forse, ma non ne sono sicuro. Gli attori erano tra i più conosciuti, quindi presumibilmente tra i più pagati; bisognerebbe dedurre che fossero anche tra i più bravi, ma non è così per uno dei due che, forse, ha contribuito a peggiorare le prestazioni del partner. Comunque non era l’unico reparto a non funzionare.
Potrei sbagliare, ma la sensazione è che troppo spesso manchino nell’ordine: talento, mestiere, voglia di studiare. Il lavoro e la voglia di studiare, aggiornarsi, possono supplire, almeno in parte, alla mancanza di talento — Il duro lavoro batte il talento, se il talento non lavora duro. Questo relativamente ad attori, registi, scrittori. E i produttori, in un mercato asfittico come quello italiano, probabilmente non hanno alcuna voglia di rischiare su progetti innovativi e devono puntare tutto su nomi sicuri e di un certo richiamo per il pubblico. Succede anche a Hollywood, ma su altra scala. Comprensibile forse da un punto di vista meramente finanziario e di rischio di impresa se fai autoveicoli oggi, non nel cinema che è un’impresa pseudo-artigianale, almeno per noi italiani, ma a rischio altissimo. Se non te la senti di rischiare, o se non ne hai i mezzi intellettuali e culturali, forse dovresti fare un altro mestiere. Ma potrei sbagliare.

Può essere la sceneggiatura, il problema?

“To make a great film you need three things – the script, the script and the script.”

Hitchcock

Non solo Hitch, lo dice anche Ridley Scott. Infatti, un paio di suoi tonfi han peccato proprio in quel reparto.

Può essere la regia, il problema? Ho avuto modo di leggere molte sceneggiature di produzioni americane, alcune britanniche, nella versione di produzione o una delle ultime bozze, e spesso mi sono chiesto come da un testo in definitiva estremamente tecnico, quasi asettico, ne abbiano tratto dei film bellissimi, serie Tv coinvolgenti. A volte dei capolavori. Segno che probabilmente il regista è riuscito ad amalgamare tutti gli ingredienti per crearne un’opera armonica. Inoltre, immagino che l’alchimia, almeno quella professionale, con gli attori e il resto della troupe fosse pressoché perfetta.

Qualunque sia la ragione – probabilmente un insieme di quelle sopra elencate – il panorama, a parte le eccezioni, dal punto di vista dello spettatore è, secondo me, piuttosto ripetitivo e desolante. Nonostante ciò, la critica è troppo spesso favorevole di fronte a evidenti prodotti mal riusciti, che siano film cosiddetti impegnati (la critica militante!) o commerciali. Non riesco a capire come ciò che leggo nell’articolo possa riferirsi a ciò che vedo sullo schermo. Non so se si tratti di amor di patria o se la presenza di eventuali amici, conoscenti o familiari nella troupe funga come edulcorante nello scrivere. Possibile, l’ambiente è piccolo.

Rimane il fatto che da troppo tempo sono molto pochi i film italiani o serie Tv che ho visto per intero e ancora meno quelli che ho potuto apprezzare. Le classiche eccezioni.

E voi? Cosa ne pensate?

© Paolo Nobile – Tutti i Diritti Riservati – Testo registrato su Patamu con numero di deposito 145266

Arrival (Colonna Sonora)

Arrival (2016) è un film che periodicamente rivedo scoprendo sempre un dettaglio in precedenza inosservato. O inascoltato. È la storia, tratta da un racconto di Ted Chiang, dell’arrivo sulla Terra di dodici oggetti alieni e del tentativo di una linguista, arruolata in fretta e furia dall’Esercito Americano, di stabilire un contatto con gli esseri che abitano l’astronave. Mentre impara con difficoltà il linguaggio utilizzato dagli alieni, la protagonista comincia ad avere esperienze di memorie future, ricordi di un tempo non ancora trascorso (se si intende il tempo in senso lineare e direzionale, come lo intendiamo comunemente). Questo accade perché, secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf utilizzata nel film nella sua interpretazione più estrema, «il modo di esprimersi determina il modo di pensare» e quindi di avere esperienza del mondo (Le lingue sono «modi di guardare il mondo» — Károly Kerényi). Gli ospiti giunti sulla Terra utilizzano un linguaggio che altera la percezione umana lineare del tempo, da qui le memorie della protagonista relative a eventi della sua vita non ancora avvenuti.

La colonna sonora gioca un ruolo importantissimo nella fascinazione che Arrival continua a esercitare su di me. On the Nature of Daylight di Max Richter stabilisce subito il tono del film (verrà riproposta alla fine, a chiudere il cerchio) e quasi fa passare in secondo piano lo stupendo lavoro di Jóhann Jóhannsson, l’autore della colonna sonora originale — peccato che a causa di On the Nature of Daylight, il lavoro dell’autore islandese non abbia potuto essere ammesso alla corsa agli Oscar … . 

Data l’importanza della comunicazione e del linguaggio nella narrazione della storia, Jóhannsson ha utilizzato voci e coro cercando di distanziarsi da esempi più illustri come questo.

Qui c’è un assaggio del suo approccio alla storia narrata in Arrival.

E in questo articolo, una bella intervista sul suo lavoro.
Se non avete ancora visto il film, guardatelo. Nel momento in cui scrivo è disponibile anche in streaming su Amazon Prime, compreso nell’abbonamento, o su YouTube a pagamento.

I Dettagli

Sto guardando una serie Sci-Fi americana. Storia interessante, plot A e plot B si intersecano nei momenti giusti, cast di tutto rispetto, sono rappresentate le diverse etnie, i generi, le preferenze sessuali ecc., tutto secondo l’attuale codice hollywoodiano politically correct, se non fosse che …

Una cosa che mi ha sempre infastidito nella maggior parte dei film o serie Tv di fantascienza è che troppo spesso non vi è la cura necessaria dei dettagli. Di alcuni dettagli. In una storia di fantascienza, almeno le più elementari leggi della fisica dovrebbero essere rispettate. È vero che ci troviamo all’interno di un racconto di finzione nel quale in un futuro relativamente vicino o lontano si possono fare cose oggi impossibili o impensabili, ma questo racconto è inserito in un universo, per quanto creato dall’autore, dove le leggi della fisica devono essere necessariamente valide, non cambiano nel tempo, semmai cambia la comprensione di queste leggi, altrimenti la storia non sarebbe verosimile. Non sarebbe fantascienza, per la quale «un certo grado di plausibilità scientifica rimane tuttavia un requisito essenziale».

Mi riferisco in particolare al volo dei veicoli che viaggiano al di fuori dell’atmosfera terrestre. Che si tratti di astronavi, capsule di salvataggio, incrociatori spaziali, caccia o cargo, troppo spesso questi veicoli nei film si muovono come volassero nell’atmosfera. Nello spazio, dove le ali non servono (servono solo in presenza di un gas o di un fluido), i veicoli modificano la loro traiettoria come se fossero aerei. Non lo sono. Devono usare altri sistemi di controllo della direzione.

La gran parte degli spettatori nemmeno si rende conto di questa inverosimiglianza, ma ciò nonostante gli autori, a meno che non siano esperti del campo, devono servirsi di un buon consulente. Anche se non recepito a livello conscio, il dettaglio, la cura per esso, che ad alcuni potrebbe sembrare superflua o costosa, migliora la fruizione della storia. È qualitativamente rilevante. Ecco la differenza con 2001 di Stanley Kubrick, per esempio. Lì ogni dettaglio è stato analizzato e la visualizzazione delle traiettorie e dei comportamenti dei corpi nello spazio è, se non vera, certamente verosimile.

Il diavolo è nei dettagli, così come la perfezione.

Fotogramma da 2001 Space Odyssey di Stanley Kubrick

Team Deakins

Cinema.
Appassionati, professionisti e aspiranti tali, cinefili. Se appartenete a uno di questi gruppi, probabilmente conoscete il grande direttore di fotografia e da poco – finalmente! – due volte premio Oscar, Roger Deakins. Pochi sanno, però che Roger lavora da molto tempo con sua moglie James (sì, il nome è maschile, ma in realtà il nome completo è Isabella James Purefoy Ellis). Formano una coppia professionale consolidata.

Photo by Kevork Djansezian/Getty Images

Il mercato è tale da averli lasciati, per il momento, a piedi. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Allora Roger e James hanno messo su una serie im-per-di-bi-le di podcast dove intervistano colleghi e compagni di lavoro. Uno più interessante dell’altro. Fin’ora ho potuto ascoltarne solo alcuni: Joel Coen, Sam Mendes, Jake Gyllenhaal, ma l’elenco è lunghissimo. Da aprile, ne hanno pubblicati oltre sessanta.

Tutti in inglese, sorry. Li trovate qui.