Il Golden Retriever

Il tragitto in autostrada non le prese molto tempo. Giunse all’altezza del ristorante sul lungomare alcuni minuti prima delle 20:00. Parcheggiò poco distante. Spense il motore e osservò l’insegna del locale in acciaio Cor-Ten: era sempre stata attratta da quel materiale dall’aspetto antico e solido, segnato dalle intemperie e dal tempo. Le ricordava un viaggio solitario a New York nell’autunno del 2007 al tempo della seconda retrospettiva su Richard Serra. Ah, il MoMa. Ricordava le due gigantesche installazioni nello Sculpture Garden che dava sulla 54a strada, la precisa sensazione di instabilità che le dava camminare all’interno delle due sculture, in particolare Intersection II: a un certo punto, per il disorientamento causato dalla forma dell’opera, aveva dovuto appoggiarsi a una delle pareti di acciaio. Nella sua memoria era ancora viva la sensazione di leggera ruvidezza della superficie.

Scese dall’auto. Era vestita in maniera elegante, ma sobria. Chiuse la vettura col telecomando e si girò, avviandosi verso il ristorante. A pochi passi da lei, nel semi-buio di un lampione fuori uso, un uomo vestito in modo trasandato la osservava, silenzioso; nessun altro nelle vicinanze. Le si gelò il sangue, ma nulla in lei lo diede a vedere. Si avvicinò con apparente naturalezza, l’uomo le sporse la mano, lei gli diede una piccola banconota e si diresse verso l’ingresso.
Anni prima, all’equinozio d’autunno, aveva cenato lì per la prima volta con l’uomo che sarebbe diventato suo marito; stesso tavolo all’interno, ma con vista sulla spiaggia. Dopo cena si erano messi insieme. Lei aveva capito subito che quella storia sarebbe andata avanti, che non sarebbe naufragata poche settimane, o mesi, dopo, come le altre, con un misto di delusione – odiava essere delusa – e rassegnazione. Lo aveva intuito quando, usciti dal ristorante, si erano indirizzati verso la spiaggia. Lo aveva compreso, sentito nel profondo, dal modo in cui passeggiavano: non una semplice successione di passi singoli ma, come in musica, di accordi. Armonia, questa era la parola che le era venuta in mente. Avevano parlato leggero. Non di grandi temi, ma di cose piccole, con poca importanza. Raggiunto l’inizio del vecchio molo, lei gli aveva preso la mano; lui aveva risposto stringendogliela. Si erano incamminati verso la testa fin quasi a toccare la nebbia che si stava alzando lentamente dall’acqua. Alla fine del pontile, l’aveva baciata. Tornati in città la sera stessa, avevano fatto l’amore a casa di lei. Due settimane dopo vivevano già insieme.

Lei si accomodò al tavolo, si guardò brevemente intorno: nonostante il tempo trascorso, il luogo non era cambiato granché. Studiò il menù, ricercato rispetto alla media dei ristoranti della zona. Salutò con un sorriso il maître che era venuto a prendere l’ordinazione. Per cominciare, scelse il piatto più semplice.
Quella sera di molti anni prima, lui aveva cercato di impressionarla con un piatto pomposo e uno spumante dal costo indecente. Lei era stata al gioco; tutti vogliono presentare la migliore versione di sé, soprattutto al primo incontro ufficiale. Anche lei si era mostrata al meglio, pur rimanendo il più possibile misurata nell’abbigliamento. Come sempre.

Il sommelier aprì la bottiglia di vino mettendo in scena la tradizionale liturgia. Lei provò la solita, leggera impazienza che la prendeva nell’attesa che il professionista, seppur abile e veloce, terminasse l’operazione. Prese il bicchiere dallo stelo, lo roteò due volte, annusò il vino e fece cenno di sì. Mentre il sommelier le riempiva il calice, sistemò le posate con precisione ai lati del sottopiatto.
Non avevano avuto figli, non c’erano riusciti. Dopo alcuni anni di tentativi, avevano rinunciato. Poi, dopo il lungo periodo necessario ad accettare l’idea – come un lutto per lei – avevano preso in considerazione l’adozione, ma avevano abbandonato presto questa possibilità: non faceva per loro. I loro amici, un po’ per volta si erano uniti in coppie, le coppie si erano trasformate in genitori. Loro due avevano cominciato a viaggiare più spesso da soli, occasionalmente con nuove coppie senza figli, ma con le quali non riuscivano sempre a legare. Non è semplice, da adulti, fare amicizie durature; troppo spesso, quelli che sembrano nuovi compagni di viaggio si palesano come cantonate, abbagli, non appena una certa intimità li costringe a mostrarsi. Il viaggio è spesso rivelatore: la necessità di mediazione, gli spazi condivisi, spesso angusti come quelli di un’auto, una barca o di una casa in affitto, mostrano la capacità di adattamento, i limiti. Gli spigoli di ciascuno.

Il cameriere le servì la prima portata con gesto sussiegoso. Si dilungò recitando il nome del piatto, verboso nonostante la semplicità della ricetta d’origine (in sostanza: una pasta lunga alle vongole re-interpretata). Lei attese con pazienza. Finalmente l’uomo la lasciò libera di gustare il primo piatto.
Avevano comprato un cane, Bruno, un bel cucciolo di golden retriever. L’idea era stata di lui. Lei aveva accettato, inizialmente con una certa ritrosia, il nuovo membro della famiglia; poi si era innamorata senza moderazione di questo compagno peloso. All’inizio lo portava persino al lavoro, di conseguenza era praticamente l’unica dei due a prendersene cura, suo marito occupandosi del cane solo in assenza di lei. Aveva osservato con curiosità la crescita del cucciolo, così veloce. Non comprendeva come alcune persone considerassero il cane un animale stupido solo perché fedele. Vivere con Bruno le aveva confermato esattamente il contrario: socievole – specialmente coi bambini: era uno spettacolo vederlo giocare con loro al parco, naturalmente indossando la museruola – amante del divertimento, in particolare in presenza dell’acqua, di carattere dolce, pieno di energia, intelligente. Anche un buon guardiano, seppure non un cane da difesa!

Il cameriere si avvicinò per versarle un po’ di vino. Lei terminò la prima portata, si pulì la bocca col tovagliolo e assaporò nuovamente il bianco che il sommelier le aveva suggerito. Posò il calice sul tavolo, guardò fuori della vetrata, verso la spiaggia, continuando a tenere lo stelo del bicchiere tra le dita.
Il lavoro di lei aveva preso una nuova, inaspettata piega e questo aveva portato ad alcuni lunghi periodi di assenza durante l’anno a causa dei viaggi che la costringevano in Oriente. Bruno, ormai adulto, soffriva la mancanza della sua padrona. Al ritorno da ogni viaggio, si drizzava in piedi dal momento in cui lei usciva dal taxi, si precipitava in giardino abbaiando furiosamente, quasi ad assalirla – pareva volesse fargliela pagare –, ma poi all’ultimo secondo, arrivando ai piedi di lei, si esibiva in una precisa partitura di piroette, salti, feste, uggiolii. In alcune occasioni, per l’irruenza, aveva rischiato di farla cadere. Entrando in casa, il cane continuava a girarle intorno, come a sincerarsi che la padrona non dovesse andar via subito, ma a un certo punto doveva rinunciare a un po’ di spazio e lasciarla alle attenzioni del marito.

Osservò la disposizione del cibo nel piatto della seconda portata, un piatto fondo, bianco, con una falda molto larga; una ricetta a base di molluschi adagiati su una crema di legumi al vino rosso con striature di fior di latte. Ammirava la completezza, la qualità non solo gastronomica di alcuni chef, senza commettere l’errore di definire arte il loro lavoro, non esageriamo.
Grazie all’abilità appresa in passato quando aveva frequentato per hobby alcuni corsi di cucina, a casa aveva spesso cercato di ripetere l’esperienza fatta al ristorante per la gioia non solo di suo marito, ma anche per quella del retriever, il quale poteva godere anch’esso delle attenzioni gastronomiche della padrona.
Col passare del tempo, la routine aveva offerto una cadenza rassicurante ai tre membri della famiglia: il lavoro – lei nella ricerca scientifica privata, lui nell’editoria –, i viaggi all’estero di lei, i rientri a casa scanditi dalle feste del retriever, le cene coi pochi amici, le vacanze da soli, ma sempre accompagnati dal cane: la vita di una coppia del ceto medio-alto senza figli. Nonostante la piacevole leggerezza di questa routine, lei si era chiesta, a un certo punto, se quella sarebbe stata per sempre la loro vita. Non percepiva in sé stessa, e neppure in suo marito, una vera irrequietezza, ma sentiva che per lei le eccitanti montagne russe dell’inizio del rapporto si erano lentamente trasformate in un gradevole percorso pressoché rettilineo, senza dislivelli. Le andava bene così. Anzi, non desiderava scossoni dopo la mancata gravidanza. Anche a distanza di anni, erano ancora vive le lacerazioni dell’anima che quel fallimento – tale lo considerava – le aveva portato. In alcune occasioni, aveva cercato di sondare l’animo di lui evitando però le domande dirette preferendo proporgli, invece, qualche cambiamento nella loro vita. Piccolo, all’inizio, giusto per variare la routine ormai insediatasi da tempo; ma lui niente, era felice così. Felice era proprio la parola che utilizzava. Si era spinta a proporgli di andare a vivere al mare dove si erano conosciuti, un desiderio che, molto tempo prima, suo marito aveva espresso, ma lui stava bene così, ora. Dov’era. Con lei.

Il cameriere le prese il piatto vuoto – lei si complimentò per la ricetta – e ritornò col menù dei dolci. Scelse un piatto di variazioni al cioccolato: la Sacher, mousse al cioccolato amaro, cialda all’arancia e cacao, mousse di cioccolato e melanzane. Chiese che il sommelier le scegliesse un vino dolce. Il telefono vibrò per l’arrivo di una notifica. Abitualmente non consultava il dispositivo al tavolo del ristorante, ma attendeva una comunicazione importante relativa all’ultimo viaggio di lavoro dal quale era tornata alcune settimane prima. Attivò lo schermo e lesse la notifica: bene, tutto in ordine, la merce era partita, ora si sentiva più tranquilla. La eliminò, lo spazio vuoto venne riempito dalla foto del golden retriever che lei teneva come sfondo della schermata iniziale.
Non aveva capito. È sempre così, c’è bisogno dell’accumularsi di diversi segnali prima di comprendere cosa sta succedendo: la stratificazione di singole, piccole variazioni nella quotidianità che devono raggiungere un livello critico prima di manifestarsi pienamente. Tutto era iniziato con alcune lievi, quasi impercettibili, increspature: di ritorno dal solito viaggio, il penultimo, Bruno l’aveva accolta con la consueta, irresistibile energia e felicità, ma, una volta dentro, all’arrivo del secondo membro della famiglia, il retriever si era esibito in alcune abbaiate in direzione della porta della loro stanza per poi lasciare alla coppia il solito spazio e andare a stendersi sul suo tappeto preferito. Tutto qui. Né lei, né lui avevano registrato l’evento. Anzi, lei aveva notato, abbracciandolo, che suo marito era di nuovo in forma: già poco prima del viaggio di andata aveva cominciato a correre tutti i giorni; facile per lui, lavorava a casa dove aveva trasformato una stanza poco usata nel suo studio e poteva ricavarsi ritagli di tempo un po’ come voleva. Lei, al contrario, era costretta a comprimere la sua attività fisica nella breve pausa pranzo, come tanti. Questa modifica al corpo del suo uomo, come un ritorno indietro nel tempo, le aveva riacceso il desiderio e avevano ricominciato a fare sesso con vigore e piacere.

Si abbandonò per un momento al ricordo. Accavallò le gambe.
Le variazioni di cioccolato erano fantastiche e il vino abbinato era all’altezza dei dolci. Terminò la cena e chiese il conto.
Fu in quel periodo, tra il penultimo e l’ultimo viaggio, che notò la nuova abitudine del suo compagno di tenere sempre il telefono in tasca. Quel telefono era sempre stato sulla scrivania di lui, lontano dal tavolo da pranzo e lontano dal comodino; trattava il dispositivo come un utile seccatore, un’ineludibile necessità. La risposta del marito era stata evasiva, legata al lavoro, ma lei non ci aveva dato importanza perché le cene con l’editore, un uomo detestabile, erano divenute più frequenti. Dopo la prima, alla quale aveva partecipato anche lei anni prima, aveva sempre evitato di essere presente perché quell’individuo saccente, bullo, le risultava ripugnante; nonostante la posizione economica e sociale, aveva un umorismo sudaticcio, un’arroganza da capufficio d’altri tempi. Le cene non erano piacevoli nemmeno per suo marito e avevano certamente contribuito a rendere umorale il suo comportamento, altrimenti normalmente più sereno. O almeno, questo è ciò che pensava lei.
Poi avvenne la scoperta, e ogni variazione – singolarmente irrilevante – alla quotidianità del loro vivere andò al proprio posto in un tutt’uno chiarificatore. È strano come, del tutto accidentalmente, veniamo a conoscenza di ciò che ci viene nascosto, schermato dal filtro della fiducia con la quale osserviamo il mondo. Il caso aveva voluto che un banale problema al filtro della lavatrice costringesse suo marito a levarsi l’ingombrante dispositivo dalla tasca e posarlo temporaneamente sull’elettrodomestico. Il caso aveva voluto che suonasse il telefono fisso del suo studio, che lui andasse a rispondere, dimenticandosi, per la durata della conversazione, del fortino sguarnito. Lei era lì, in funzione di assistente, in attesa che tornasse il “tecnico di casa”: lo schermo si illuminò, il mittente noto, il messaggio chiaro anche se parziale.

Fu scossa dall’arrivo del cameriere. Pagò il conto e lasciò una mancia generosa sapendo che non sarebbe più tornata. Uscì dal ristorante e si avviò, in quella prima sera d’autunno, lungo la spiaggia, verso quel molo dove, alla fine del pontile, si erano baciati per la prima volta.
Lo schermo si era oscurato, la notifica inghiottita. Non aveva mosso un muscolo pur continuando a guardare il telefono a lungo. Nonostante l’immobilità, uno sconvolgimento aveva attraversato il suo corpo, un disordine che le aveva creato un malessere insanabile. Lei uscì dalla lavanderia prima che lui rientrasse dopo la telefonata. Si rifugiò nel bagno. Rabbia, delusione, senso di colpa. Come poteva provare senso di colpa? Riconobbe la sensazione che anni prima l’aveva accompagnata per quel lungo, tormentato periodo di profondo dolore che era seguito alla mancata gravidanza. Perché? Perché quel senso di menomazione, inferiorità, vuoto, come un arto fantasma? Non era lei ad aver fatto fallire il loro progetto. O forse sì. Le settimane a seguire le trascorse, combattuta dai dubbi, tra questi stati altalenanti: la delusione, il suo corpo invaso dalla rabbia poi svuotato dal senso di colpa. Doveva fare qualcosa per lenire la sofferenza, riempire il vuoto creato dall’ingiustizia. Non rivelò nulla a suo marito della sua scoperta, non gli chiese perché, non cercò di avere ulteriori conferme: era stato varcato un confine, non c’era modo di tornare indietro.
Prese la decisione durante il volo di andata dell’ultimo viaggio di lavoro. Non impegnò neppure un secondo per considerare le implicazioni morali o giuridiche del suo intendimento: le era necessario come l’aria ottenere giustizia, perché di questo si trattava: il senso di colpa che stupidamente provava si era finalmente trasformato nella certezza di aver subito il torto più grave, e a questo doveva porre rimedio.

Giunse alla testa del molo. Il passato continuava a insinuarsi nei suoi pensieri così come aveva fatto per tutta la cena. Non si ottiene mai piena giustizia, le cicatrici non scompaiono, testimoniano il crimine subìto.
Era tornata dall’ultimo viaggio con i fiori della pianta – una specie che cresceva solo in Nord America, Cina e Sud-est asiatico – schiacciati tra le pagine dei libri che aveva sempre in valigia. Le sue conoscenze scientifiche le avevano permesso di andare a colpo sicuro. Tornata a casa, lasciò seccare le foglie e le pestò nel mortaio; le conservò nella dispensa in un barattolo anonimo. Alcuni giorni dopo ne mise un cucchiaio nei cereali della colazione di lui contando di mascherare il sapore col miele che lui aggiungeva sempre in abbondanza. Andò al lavoro in ufficio conservando una sensazione di lucida, controllata attesa per tutto il tempo. La chiamarono nel pomeriggio tardi mentre era ancora alla sua scrivania: al mattino, un passante aveva notato il corpo di un uomo in tenuta da jogging galleggiare nel fiume che attraversava la città. Aveva allertato i Vigili del Fuoco che, dopo alcune ore, avevano recuperato il corpo impigliatosi nei rami incastrati alla base di una delle pile del ponte, a valle del punto di avvistamento. L’autopsia effettuata giorni dopo rivelò l’arresto cardiaco come causa del decesso. Suo marito aveva l’abitudine di andare a correre sul lungofiume; il malore doveva averlo colto di sorpresa, la morte giunta dopo pochi istanti. Era caduto in acqua che non respirava già più. La sua morte andò a ingrossare il numero degli uomini di mezza età che improvvisamente, dopo anni di vita sedentaria, riprendevano a fare sport credendo di avere ancora vent’anni. Nonostante i loro pochi amici intimi, al funerale, laico, si presentarono in molti: era un uomo conosciuto.

Rifece il molo in senso inverso e si diresse verso il parcheggio del ristorante dove aveva lasciato l’auto. L’uomo incontrato all’inizio della serata non era più lì. Sedette al posto di guida, mise in moto e si diresse verso l’autostrada in direzione della città.
Il riconoscimento del corpo avvenne in una realtà ovattata. Rispose meccanicamente al medico legale. Una volta uscita, si stupì di non aver provato nulla. A sera tardi era tornata finalmente a casa. Rimase nell’ingresso per alcuni istanti, poi si diresse in cucina: si tolse la giacca, la mise sulla spalliera della sedia, si diresse verso il lavello, lo riempì, aggiunse del detersivo e cominciò a lavare posate e tazze della colazione del mattino. Le sciacquò accuratamente, ripose tutto nella lavastoviglie. Scelse l’opzione di lavaggio ad alta temperatura, avviò l’elettrodomestico. Andò nel salone e si sedette sul divano. Il silenzio le si rivelò nuovamente – inaspettatamente – dopo tanti anni; anche una famiglia piccola di due persone più un cane fa rumore. Il cane. Bruno! Solo allora si rese conto che il golden retriever non le era venuto incontro. Lo chiamò: nessuna risposta. Si alzò, uscì in giardino, la cuccia vuota. No, impossibile che fosse fuggito. Fece il giro della casa terrorizzata all’idea che anche lui avesse ingerito il veleno (avrebbe avuto effetto sul corpo del suo compagno peloso?). Al mattino aveva fatto attenzione che nessun avanzo rimanesse incustodito e ora aveva paura di trovare Bruno riverso sul prato di casa, ma del cane non vi era traccia. Si sedette sull’erba: l’unica possibilità era che il retriever avesse accompagnato il suo uomo – suo?, il pensiero la disturbò per un attimo – durante la corsa sul lungofiume. Non ci aveva pensato prima, non aveva considerato l’eventualità, aveva preparato il processo come in trance saltando a pie’ pari dibattimento e sentenza per arrivare direttamente alla comminazione della pena non considerando il terzo elemento del gruppo. Caduto il marito in acqua, forse Bruno si era tuffato per raggiungerlo e, stremato dalla fatica per riportarlo a riva o incastrato da qualche parte, non ce l’aveva fatta. Anche se il retriever era un ottimo nuotatore, la differenza di stazza poteva averlo tradito. Possibile? Nessuno aveva assistito alla scena, infatti solo un passante aveva notato il corpo di suo marito. Chiamò il numero delle emergenze e, riferendosi a quanto accaduto al mattino, chiese se avessero notizia del ritrovamento di un cane o del suo corpo vicino a quello della vittima. Le risposero che avrebbero trasmesso la richiesta ai Vigili del Fuoco, che a loro non risultava – e no, erano dispiaciuti, ma non potevano tornare sul luogo del ritrovamento per controllare. Mise giù il telefono e rimase a fissare il vuoto. Così come non aveva pensato alle conseguenze delle sue azioni sulla sua vita, non aveva pensato alle conseguenze sulla vita degli altri.
Attese inutilmente la telefonata per alcuni giorni sentendo che, se anche fosse arrivata, le avrebbe confermato che il suo amato Bruno era morto.

Raggiunse casa poco prima di mezzanotte. Aveva viaggiato curva, appesa con entrambe le mani al volante. Il senso di solitudine che aveva segnato le ultime settimane dopo la sparizione del retriever si era trasformato rapidamente in senso di colpa. Di nuovo. L’inattesa scomparsa del suo fedele compagno aveva aperto un vuoto enorme, una ferita che si era aggiunta alle cicatrici del passato, lontano e recente.
Parcheggiò l’auto nel vialetto di casa. Spossata, spense il motore e si appoggiò allo schienale del sedile. Rimase in quella posizione per alcuni minuti. Dal tunnel centrale dell’auto estrasse una mini-bottiglia di acqua minerale riempita a metà con una bevanda che si era preparata nel pomeriggio, prima di partire per il ristorante. La bevve in pochi sorsi. Rimise la bottiglietta a posto e si adagiò sul sedile. I ricordi cominciarono ad affiorare alla superficie della coscienza: immagini come spezzoni di video, suoni. Una debolezza violenta si impossessò del suo corpo, tanto da procurarle smarrimento. Poi la nausea, fortissima. Subito dopo sentì un’enorme pressione sul petto. Cercò istintivamente di respirare, ma il suo corpo rimase immobile. Per un momento le parve di udire il lontano abbaiare di un cane. Immaginò, in un ultimo barlume di lucidità, un istante prima che il suo cuore smettesse di battere, che il retriever si precipitasse in giardino come un tempo, felice di rivederla, pronto alle feste. Morì prima di sentirlo graffiare la portiera dell’auto.

© Paolo Nobile – Tutti i Diritti Riservati
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Il Golden Retriever ha ricevuto il 1° Premio nella sezione racconti lunghi del Premio ALA 2022.

L’Etica della Vendetta

Un paio di anni fa mi sono imbattuto in un documentario molto interessante su Netflix, Voir, creato da Tony Zhou e Taylor Ramos, dedicato al cinema e suddiviso in episodi. In particolare mi ha colpito la parte dedicata alla struttura delle storie di vendetta intitolata The Ethics of Revenge.

A parte seguire i canoni aristotelici, le buone storie di vendetta hanno alcuni elementi in comune, ma uno di questi sembra essere sempre presente, il prezzo da pagare da parte del protagonista: moralmente non sarà più lo stesso.

Il colpevole muore, a volte muore anche il giustiziere, ma spesso non sono i soli a cadere.

Così mi sono divertito a scrivere Il Golden Retriever.

Continua …

Premio ALA 2022

Sabato 22 ottobre, 25°C in riva al mare, presso la Sala conferenze del Polo culturale comunale “Bottini dell’olio” di Livorno, ho ricevuto il 1° Premio per la sezione racconti lunghi del Premio ALA. Il testo presentato si intitola Il Golden Retriever ed è entrato a far parte dell’antologia che raccoglie tutti i testi premiati.

Sapevo di aver fatto un buon lavoro, ma vederselo riconoscere da una giuria è emozionante.

La folla

Se la licenzio devo darle il trattamento di fine rapporto e ora non ho i soldi. Ma come puoi vivere in un paese per dodici anni e non imparare due parole di italiano. Una volta che te ne vai, è per sempre. Non puoi pensare di tornare al paese, perché dopo così tanto tempo non è più il tuo. Straniero qui, straniero in patria. Devi decidere dove sarà la tua tomba e rinunciare a tornare. Al massimo le vacanze. Come si chiamava quell’ingegnere dell’IBM? Dopo aver girato e vissuto in giro per il mondo, una volta in pensione aveva deciso di tornare a Milano, ma non era più la sua città. Se i miei sapessero che non ho dato nemmeno un esame … . Non so cosa fare. Se glielo dico, cosa faranno? Cosa penseranno di me? Avevano così tanta fiducia. Dovrei già essere laureato. Finalmente libera, mi sono tolta di dosso quest’uomo di merda. Ma come ho fatto? Ora lo so, l’orologio biologico. Certo, era un bell’uomo …, è un bell’uomo, ma è impossibile viverci assieme. Totalmente inutile, una sofferenza. A parte scopare. Ora almeno ho un bambino. Cosa ci farà tutta questa gente a prendere la metro? Quello che faccio io, tornano a casa. Qualcuno invece scapperà da casa, qualcosa, qualcuno, oppure da tutto. Devo rientrare prima di mio figlio. Lavare bene le macchie, far sì che sia impossibile capire cosa è successo. Aveva urlato che voleva andarsene. L’avevano sentita tutti nel palazzo! Devo puntare su questo, stare attento a non tradirmi. Non volevo, ma mi dava addosso senza darmi un attimo di pace. Impossibile tornare indietro, ora. Speriamo di fare in tempo, non voglio che mio figlio sappia cosa ho fatto. Di chi saranno quelle vecchie scarpe? Ma tu guarda … . Probabilmente un poveraccio. Troppa gente sta male e non ce ne rendiamo conto fino a quando tocca a qualcuno che conosciamo. Oppure quando tocca a noi. Guardi che è inutile spingere, non vede quanta gente? Scusi. Scusi un bel niente. La piantasse almeno di appoggiarsi. Questo pare averlo bello gonfio; forse riesco a sfilarglielo senza farmi beccare come il mese scorso. E per due soldi, c’era più cartaccia che denaro. Sfigato. E sfigato io che mi sono fatto beccare, ma che ne sapevo che era un poliziotto in pensione. In genere li riconosco gli sbirri. Che fiatone. Non ce la faccio proprio più. Una volta le scale non erano un problema. Ora devo fermarmi molte volte prima di arrivare in cima. Chi avrebbe mai pensato di finire così. Da giovane non sai nulla di ciò che ti aspetta, tutto è possibile. Puoi immaginare in grande, sognarti su di un palco a ritirare un premio o in compagnia di una bellissima donna. Speriamo il treno non sia in ritardo. Non ho più voglia di aspettare, ho preso la maledetta decisione. È strano come ci si senta bene, dopo. Determinati per la prima volta. In pace. Prima o poi dovremo lasciarci. Quando la bimba sarà grande a sufficienza da capire, dovremo lasciarci. Ingoierò il rospo per i prossimi anni, ce la farò, per permetterle di crescere serenamente. Più o meno. Sopporterò. Avrei dovuto capirlo subito che non eravamo fatti l’uno per l’altra. Non riusciamo nemmeno a camminare insieme, figurati vivere. Eppure stava bene, non l’avevo mai vista così raggiante. Sono bastati tre mesi. Non tre anni, tre mesi! e il cancro se l’è portata via. Come è possibile? Asintomatico, ha detto l’oncologo. Vuol dire che quando te ne accorgi è troppo tardi. Non riesco a pensare ad altro. Non è giusto. Non è giusto. Non è giusto! Non avrei dovuto dargli un pugno. Mio padre me l’aveva detto: se qualcuno ti attacca, difenditi, ma non essere il primo, non risolvere mai una questione a pugni. Ora mi denuncerà, il bastardo. Credeva che io non reagissi, come al solito. Che gusto spaccargli i denti! Il suo sarcasmo di merda ora se lo può mettere su per il culo. E davanti al giudice dirò che l’ho fatto con piacere, soddisfazione, perché non è giusto comportarsi civilmente coi figli di puttana, bisogna gonfiarli di botte, altro che far finta di niente o porgere l’altra guancia. Avrei dovuto sorriderle anch’io. Era proprio bella. E quel sorriso non era per qualcun altro, c’ero solo io. E invece sono rimasto lì imbambolato a chiedermi perché avesse sorriso proprio a me. Scemo! Non era importante il perché, era importante che l’avesse fatto. Ha aspettato un po’, poi, quando io ho distolto lo sguardo, lo ha fatto anche lei e dopo un minuto se n’è andata. Sono proprio un imbecille. Devo essere stato adottato, non c’è altra spiegazione. Come posso essere così diverso da loro e da mio fratello. Altro che pecora nera, sono proprio un altro animale. Io non appartengo qui. Ma come fa quello a leggere un libro in questa calca.

Oh, finalmente un po’ di spazio.

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© Alexey Titarenko – CROWD TRYING TO ENTER VASSILEOSTROVSKAYA METRO STATION DURING THE COLLAPSE OF THE SOVIET UNION, 1992 – Gelatin silver print. Printed by Alexey Titarenko from original silver negative by optical means.
La Folla (2020) – © Paolo Nobile, Tutti i Diritti Riservati
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Erano i ’60

Suor Angela era una delle suore che imponeva il timore di dio nell’asilo del quartiere nel quale ero capitato. Secca-secca, occhialuta, menava sventole che pareva Serena Williams. Una di quelle, esplosa improvvisamente, colpiva a velocità supersonica la guancia e, con uno schiocco che pareva uno sparo, ti elevava il quoziente di intelligenza in un amen.
In quegli anni, quello era il metodo per tenere a bada le esuberanze di noi piccoli immigrati, meridionali e veneti in maggioranza, i cui genitori rubavano il lavoro agli indigeni. Secondo l’opinione degli indigeni.
Se, una volta a casa, il teppistello aveva il coraggio di riportare l’accaduto, rischiava di prendere una seconda razione. In genere le mamme – negli anni ’60 i papà non accudivano i figli – non si lamentavano. Ammesso che una di loro nutrisse dubbi sul metodo formativo di Suor Angela, dopo una breve riflessione arrivava alla conclusione che, probabilmente, il figlio si era meritata la sberla.

Se invece eri un bambino tranquillo, dio mai volesse timido e studioso, non venivi mandato a fare karate o pugilato in ambiente protetto, come una specie in via d’estinzione, ma ogni pomeriggio, dopo la scuola, venivi mandato in strada a giocare. Lì sviluppavi gli anticorpi e imparavi a fare a botte. Fino a dodici anni ho fatto a botte, se non tutti i giorni, quasi. I miei avevano il conto aperto dall’ottico sul corso — ho indossato gli occhiali sin dalla seconda elementare. Periodicamente, dopo l’ennesima rissa, mi presentavo da solo in negozio con in mano i pezzi delle mie baricole e la proprietaria, scuotendo la testa, diceva «Questi non posso proprio più aggiustarli». E via un altro paio. Cambiavo più spesso occhiali che spazzolino da denti.

Si giocava in strada, e capitava che si facessero danni. Una volta, con gli altri membri della banda, dopo aver fatto i compiti, organizzai una sassaiola contro la 500 del barbiere, reo di avermi tagliato i capelli troppo corti nonostante gli avessi detto di non ascoltare mia madre. Incredibilmente lui non seppe mai chi e perché, ma mio padre sì, non so come. Qualcuno doveva aver fatto la spia. Quella sera solo mia madre potè impedirgli di ammazzarmi.

I compagni di classe delle elementari erano tra i più eterogenei: da quello a cui oggi diagnosticherebbero come minimo una malattia dall’acronimo impossibile a quello divenuto famoso pochi anni dopo, non ancora maggiorenne, per rapina a mano armata. Di due anni più vecchio di noi, bocciato due volte alle elementari – un caso unico – una mattina d’inverno era stato colto in flagrante in una gioielleria del centro. All’arrivo della volante, aveva subito posato la pistola sul pavimento e si era arreso senza fare resistenza, evitando le aggravanti. «Un giovane esperto con conoscenza approfondita del Codice Penale» scrisse all’epoca il quotidiano nella sezione cittadina. Me lo ricordo ancora il mio ex-compagno di classe a diciassette anni, spatentato, allenarsi con la cosiddetta Alfetta Rapina — l’Alfa Romeo 1800 Alfetta (122 CV), mezzo in uso alla Polizia e preferito dai rapinatori — percorrere in pieno giorno a tutta velocità la doppia curva a esse sotto casa, sgommando e derapando in modo da infilare come un missile la via che portava sul corso e poi dritto all’autostrada per Savona. Proprio bravo, non ha mai investito nessuno.

Erano gli anni in cui durante la bella stagione si vedevano ancora i maggiolini e le lucciole (gli insetti), ma d’inverno la nebbia in città era così fitta che non ti fidavi ad attraversare la strada neppure se intuivi il verde del semaforo. La stagione era lunga e faceva così freddo che c’era spesso il ghiaccio sul marciapiedi. I campi di calcio per noi bambini non erano in erba sintetica, ma in fango vero, incastonato qua e là da alcune pietre, croci dei portieri. Non c’era l’allenatore certificato per la rianimazione cardio-polmonare e l’uso del defibrillatore come nelle squadrette di oggi. Chi si procurava una ferita, ci pisciava sopra per disinfettarla (c’era questa bizzarra credenza sulle proprietà della pipì). Eventuali dispute sul campo, non essendoci gruppi agguerriti di mamme a controllare, venivano risolte con le mani. 

© Pedro Luis Raota

Se ti innamoravi della maestra e le portavi un regalino, non venivi accusato di molestie. E una volta approdato alle medie, pochi anni dopo, non dovevi aspettare che la tua compagna di classe ti dicesse «Sì, ora puoi baciarmi» dopo che avevi firmato la dichiarazione di consenso informato in triplice copia e la manleva per gli eventuali effetti secondari. Se riuscivi a mettere insieme il coraggio necessario, la baciavi e basta. Perché te l’aveva fatto capire in tutti i modi che era ora.

Le vacanze duravano tre mesi e mezzo. Senza compiti. Si partiva in treno scortati da un’amica di famiglia o un parente che tornava ggiù e si tornava a casa poco prima di ricominciare la scuola. Trasformati. Ci pensavano i cugini a farti fare esperienze che oggi fanno solo i trentenni accompagnati.

Scalzo e sempre in costume, che fossi al mare o in città a casa della zia, il colore della pelle si trasformava in bronzo brunito tanto che quando i genitori mi raggiungevano, la prima espressione che si dipingeva sul loro viso quando entravo nella stanza era “Mio figlio dov’è?”.

Si era precoci nel vizio. Ho fumato la prima volta a nove anni, quarta elementare: Nazionali Senza Filtro Esportazione, quelle col pacchetto verde e la sagoma della caravella nera. Uno delle banda ne aveva rubate cinque al padre, se l’era messe in tasca e ce le aveva portate insieme a qualche fiammifero. Uno schifo! Smisi subito, ma ricominciai a fumare a diciassette anni. Questa volta la pipa. 

Ma questa è un’altra storia. Si era già nei ’70.

© Paolo Nobile – Testo registrato su Patamu.com con numero di deposito 142102

Odio ammalarmi

Odio ammalarmi, rimanere chiuso in casa per giorni senza far nulla. Ho finito tutti i compiti. Sono bravo in matematica. Nelle altre materie un po’ meno, ma prendo comunque buoni voti. La mamma dice che almeno la scuola non è una preoccupazione. «Almeno quella!». Lei ha altro a cui pensare adesso. Rimanere a casa per due settimane per colpa mia l’ha messa di cattivo umore. Lei dice che non è vero, che sono la persona più importante, ma lo so che ce l’ha con me. Ce l’ha con me perché sono ammalato, non può andare al lavoro e non andare al lavoro è un problema perché il suo capo prima o poi la licenzia. Dice. Non a me, lo dice piano a Emma, la sua amica, al telefono, ma io sento lo stesso dalla mia stanza. Non tutto, ma quasi. A volte mi stendo sul divano di là e faccio finta di riposare per sentire cosa dice al telefono, l’unico che abbiamo e che usa sempre lei. Posso giocarci solo qualche volta perché le serve sempre. A volte piange. Come ieri. Ieri sono andato di là per chiederle perché, ma appena sono entrato nella sua stanza, che era anche quella di papà, si è girata e si è asciugata in fretta gli occhi. Perché fai finta di non piangere se ti ho già vista? Ha inventato una scusa. Non ricordo quale. Certo che con le scuse sono più bravo io. Lei ci crede sempre. Papà faceva solo finta di crederci, perché in realtà non gli importava nulla. Sì sì certo, ora vai in camera tua. E poi litigava con mamma. Se n’è andato e non è più tornato, nemmeno per prendere le cose rimaste. Però si è preso il televisore e il computer. Vecchi, ma funzionano ancora. Mamma lo ha cercato al telefono, ma lui non ha mai risposto. Lo so perché lei lo racconta a Emma. Io non so perché se n’è andato; la mamma dice che tornerà, poi dice che è meglio se non torna. È da parecchio che non lo vedo. Non è ancora tornata. Ha detto che usciva a comprare il termometro nuovo, quello vecchio si è rotto, ma è passato un sacco di tempo. Ho guardato l’orologio quando è uscita. Mezz’ora al massimo. Ho guardato l’orologio, però io non so ancora leggere l’ora! Non bene, mi confondo. A me sembra sia passato molto più di mezz’ora. Vorrei dormire, così da non rendermi conto del tempo che passa. Vorrei svegliarmi che lei è già qui. Quanto tempo ci vorrà per andare a comprare un termometro! E se si perde, se ha un incidente? E se anche lei decide di andarsene? La dottoressa dice che devo rimanere a casa per almeno altri undici giorni perché sono ancora infettivo e devo rimanere isolato. La mamma dice che vuol dire da solo. Usa il dizionario! Non so che cos’ho. Mi ha detto il nome della malattia, ma non me lo ricordo. Una cosa che si prendono tutti i bambini prima o poi. Mi ha detto che una volta si poteva morire per quella cosa lì. Ora si sta a casa per un po’ e poi si torna a scuola. Spero presto, perché non ne posso proprio più di stare qui dentro. Lo so che a molti miei compagni non piace la scuola, ma a me sì. A scuola mi diverto, faccio cose che mi piacciono. Non tutte. E poi ho i miei amici. Con loro gioco durante l’intervallo, a volte anche durante la lezione, ma la maestra ci becca subito. Una volta mi sono anche preso una nota. La mamma mi ha detto pazienza. Marta mi ha rimproverato. Perché? Lei non è mia madre, ha la mia età! Non posso invitare Pietro. Potrei passargli la malattia e così sarebbe lui a dover rimanere a casa. «No buono», come dice il bidello. La maestra dice che non si chiama più bidello, ma collaboratore scolastico. Ma perché devo usare due parole difficili quando posso usarne una facile? Giocherei con Marta, anche se è una femmina, ma non posso invitare neppure lei. Dice che siamo fidanzati, ma che cosa vuol dire, che non gioco più con Pietro? A me non sta bene. Con lei non posso giocare come con Pietro, si fa subito male, si offende. E poi non voglio essere rimproverato. Ho letto tutto quello che c’era da leggere, anche se ho capito poco. La mamma dice che se distribuissero ancora l’elenco telefonico leggerei anche quello. Mi annoio e il televisore se l’è preso papà. La mia finestra dà su un prato con degli alberi. Abitiamo in campagna, ché costa meno. Dalla finestra c’è una bella vista; solo che oggi piove, il vetro è bagnato. Appannato. Mi diverto a guardare le gocce che scendono lentamente. Insomma. Mi siedo sul davanzale va’, non riesco più a stare a letto. Mi appoggio ai libri che occupano gran parte della stanza. Ce ne sono anche sul marmo della finestra. Sono della mamma o del suo capo, non ricordo. Una volta poteva lavorare anche da casa col vecchio computer, ma da quando papà se l’è preso, deve andare in ufficio, ma non può perché io sono ammalato. Ma dov’è finita? Ormai è buio. È successo qualcosa. Guida come una lumaca! Non torna. Va a finire che anche lei non torna. Sarà andata da papà, hanno deciso di lasciarmi qui. Che fame. L’ora della merenda sarà passata da un po’. Vado in cucina, forse la mamma ha lasciato qualcosa anche se ha deciso di andarsene. Una pera molle. Posso resistere. Bevo un po’ d’acqua, ma ne rovescio un po’ sulla cucina. Asciugo con la carta del rotolo. La mamma ha detto che non dovremmo consumare carta inutilmente, però ha comprato questo rotolo e l’ha appeso vicino ai fuochi. No, i fornelli. Devo chiederle perché ha comprato quel rotolo di carta se poi non dobbiamo usarlo. Glielo chiedo quando torna. Se torna. Sono proprio arrabbiato. Sono sicuro che se n’è andata e mi ha lasciato qui. Se non mi ha chiuso a chiave forse posso uscire e andare dal padrone di casa. È vicino. Casa sua è appiccicata alla nostra, ma anche la nostra è sua. Mi viene da piangere. Però non vale. Non è giusto. Vado bene a scuola. Ogni tanto ne combino una, ma tutti dicono che sono bravo anche se vivace. Non so cosa vuol dire. Devo usare di più il dizionario anche se non ne ho mai voglia. È pesante. La mamma dice che è l’unico modo per migliorare il lessico. Lessico l’ho cercato sul dizionario, ma mi sono già dimenticato cosa vuol dire. Però ha un bel suono. Alcune parole mi piacciono molto perché hanno un bel suono anche se non conosco il significato. Che fame. La pera molle proprio no. Fammi vedere in frigo. C’è ancora un po’ di latte. Speriamo che insieme al termometro compri anche da mangiare. Il latte sembra buono, non puzza. Solo che a me freddo non piace. La mamma dice che non devo accendere il fuoco, soprattutto quando sono da solo. Ma adesso sono grande, l’ho visto fare, lo so come si fa. La cucina è vecchia. Ci vogliono i fiammiferi. Nel cassetto. E poi, lei non c’è, non torna più, devo fare da solo. Prima metto il pentolino sul fuoco, fornello!, poi verso il latte, poi accendo il fiammifero, questo non è facile però, tengo premuto il coso del gas, avvicino il fiammifero. Sento  lo sssss del gas. Niente, non si accende. Ah, sì, l’ho visto fare alla mamma. Sposto il pentolino, accendo un altro fiammifero, tengo premuto il coso e avvicino il …, minchia che fiamma!, non devo dire minchia. Ma perché ha fatto pum? Devo chiederlo alla maestra. Mi sono bruciato un po’ i capelli. Che puzza! Come quando la nonna bruciava il pollo sul fuoco. Non ricordo la faccia della nonna, ma quella puzza me la ricordo, non so perché. Devo bagnarmi un po’ la faccia, sento caldo. Il lavabo è dietro di me. Mi bagno la faccia e i capelli che fanno uno strano rumore. Cos’è questa luce? Viene da dietro. È il rotolo! Ha preso fuoco. Ma come è possibile? È bellissimo. Che luce! Le fiamme stanno sciogliendo la plastica del …, come si chiama? porta-rotolo. Ma certo, questa era facile. Cola che sembra frappé. Dentro il pentolino. Nooooo. Era tutto il latte che avevo. E ora? Il campanello. Qualcuno ha suonato. Sarà il padrone di casa come quella volta che papà aveva il volume del televisore troppo alto. Ma papà non c’è. Ci sono solo io. Sarà arrabbiato come quella volta lì. Suona ancora. Vado a vedere. Le chiavi sono nella serratura. Allora posso uscire! Apro la porta. È la mamma con due enormi buste della spesa. Ma dov’eri? Ho fame. Cosa ho fatto ai capelli? Non lo so, cosa ho fatto? Sì, ti lascio entrare. Mi stavo annoiando, mi è venuta fame, allora sono andato in cucina, ma c’era soltanto una pera molle. Allora ho guardato nel frigo, ho preso il latte, il pentolino … . Sì, lo so che non devo … . Mamma, perché hai fatto cadere le buste?


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© Elena Shumilova – Untitled

L’odore

È uno di quei giorni in cui vorrei essere al mare, vestito per il freddo: giacca pesante, le mani in tasca, occhiali da sole per proteggermi dalla luce diffusa del cielo coperto, ma non solo. Prendo l’auto e in poco tempo sono lì. Osservo le onde spinte dal vento calmarsi sulla spiaggia. Mi bagno le scarpe e chissenefrega se avrò freddo ai piedi. Cammino a lungo, mi fermo al chioschetto sulla passeggiata, voglioso di caffè.

L’immagine è di autore sconosciuto. Fa parte della collezione di Sèbastien Lifshitz, composta da fotografie trovate nei mercatini delle pulci o su internet (!). Tutte raccolte in un libro intitolato Amateur.

Seduto sul muretto, come da ragazzino, osservo i pochi compagni di giro. Ognuno cerca un pezzo di sé: un ricordo, una sensazione sepolta da tempo, un viso. Ritrovarsi, senza il bisogno di parlare con qualcuno. O il dovere.
Incrocio un giovane uomo vestito di tutto punto, da sera, le scarpe lucide. Un dandy, direbbe qualcuno con un termine da sempre desueto. La sabbia bagnata gli sporca le calzature eleganti. Porta a spasso due cagnolini. È un po’ stropicciato; probabilmente è appena rientrato da una notte movimentata. Aperta la porta di casa, deve aver trovato i suoi amici in attesa, scodinzolanti. Niente doccia, subito a spasso. I cani mi piacciono, ma non quelli piccoli. Un cane deve avere una certa dimensione, deve essere forte. Un cane piccolo è un giocattolo; uno grande è un amico. Non so perché.
Il giovane uomo mi fa tornare in mente un diciassettenne conosciuto brevemente durante un’estate al mare. Si faceva chiamare con un nome di donna e, tra tutti i miei amici, aveva scelto me cercando più volte, timidamente, di avvicinarmi. Facevamo tutti parte di un folto gruppo di ragazze e ragazzi provenienti da diverse città. Un giorno arrivai in spiaggia prima di tutti. Era già lì e trovò il coraggio di porre proprio a me la domanda che probabilmente lo arrovellava da tempo, nonostante la giovane età. Eravamo tutti alla ricerca della storia dell’estate, magari la prima, una di quelle che poteva durare una notte o un mese. Non di più. Italiana, tedesca, inglese. Per noi la riviera offriva molte possibilità, tacche da aggiungere alla cintura. Lui probabilmente cercava una risposta, una risposta che io non avevo; non sapevo perché mi piacessero le ragazze, ma era così. Il perché lo capii molti anni dopo: era l’odore. L’odore di un uomo mi respinge, quello di una donna mi attrae. Semplicemente.

L’odore del mare non mi respinge mai, nemmeno quando esagera, come quando sulla spiaggia marciscono le alghe scaraventate a riva dalla burrasca. In estate vengono immediatamente raccolte; in inverno giacciono sulla battigia a decomporsi, putrefare.
Il mare mi riporta all’infanzia, quando mio padre mi insegnava, coi suoi modi spicci, a nuotare; alle scottature; alle vacanze che duravano uno, due, tre mesi; ai cugini molto più scafati di me. Da adulto, ho imparato a navigare. Della navigazione mi piace tutto, riesco ad apprezzare persino le scomodità o gli eventi che mettono alla prova la mia esperienza, sempre troppo poca. Ma se devo pensare a un momento particolare è quando, uscito dal porto, messa la prua al vento e issata la vela, poggio e appena preso velocità, spengo il motore. Silenzio, a parte il suono del vento, lo sciabordio dell’acqua. E l’odore del mare.

Il sole invisibile è al tramonto. È ora di tornare, mi avvio verso il punto dove ho lasciato l’auto.
Ma prima ho voglia di entrare nell’acqua vestito, come in un film.


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